martedì 29 novembre 2011

That game company, vieni a giocare con noi nel deserto



In viaggio con i creatori di Flower e del prossimo Journey. Che raccontano i videogame come li intendono loro: nessun punteggio, non si vince e non si perde. E, soprattutto, non si spara. In gioco ci sono solo le emozioni
Jenova Chen e Kellee Santiago sono ex compagni di università e fondatori di Thatgamecompany. Dal 2006 hanno cambiato le regole dell’universo videoludico con giochi come Cloud, Flow e Flower.

Santa Monica è un sobborgo ricco a ovest di Los Angeles, sull’oceano. Le strade sono sempre larghe, le distanze adatte più agli pneumatici che alle scarpe, ma qui almeno c’è un centro con negozi e cinema, un bel molo di legno dove andare a guardare le onde: sembra insomma una cittadina normale, piuttosto che la metropoli diluita che le sta intorno.

Qui a Santa Monica, accanto alle sedi di Yahoo! e Universal Music, c’è uno stabile di mattoni anonimo. Al primo piano, alla fine di una tipica scala di ferro da film americano, c’è un ufficio lungo e stretto: cinque scrivanie a sinistra, porte che danno su quattro uffici a destra, una cucina in fondo, un bagno. Non si direbbe, né da fuori né da dentro, ma in questo posto stanno cambiando la storia dei videogiochi.

Thatgamecompany è una società che dal 2006 realizza giochi per conto di Sony: girano su PS3, e si comprano direttamente dal PlayStation Store. I primi due, Flow e Flower, hanno avuto un successo enorme, pur non essendo in nessun modo simili a quello che c’è in giro. Sono giochi brevi che si finiscono in qualche ora; costano circa dieci euro; non somigliano a nessun titolo di successo degli ultimi anni; non appartengono a nessun genere noto; non sono facili da descrivere a parole. Altrettanto difficile da descrivere è Journey, il gioco che stanno ultimando in queste settimane.

Quando mi presento alla porta è in corso una strana emergenza, soprattutto per un posto dove 12 persone devono smacchinare al computer: è saltata la luce. Si controlla che anche i vicini siano senza, si fanno delle battute, e poi non si sa cosa fare.

Ne approfitto per chiacchierare con Kellee Santiago, una delle due persone che hanno fondato Thatgamecompany. Padre informatico cubano, madre della Virginia, Kellee è nata in Venezuela nel 1979. Ha avuto per le mani i videogame fin da piccola, insieme a musica, libri e film. "Il nostro obiettivo", spiega, "è creare giochi che allarghino i confini di questo mezzo. Non significa che disprezziamo i giochi che ci sono in giro. Anzi, siamo giocatori, amiamo molti di quei titoli, gli dedichiamo un sacco di tempo. Ma vogliamo più varietà. Se i videogiochi di oggi fossero esposti in una libreria, dove tutto è diviso per genere e c’è moltissima scelta, ce ne sarebbero molti raggruppati in un paio di zone della libreria, e poi solo scaffali vuoti".

In effetti, il mercato negli ultimi anni ha prodotto titoli da decine di milioni di copie, ma sempre nell’ambito del conflitto e dello sport. Quasi tutti sono lunghi e complessi (GTA, Assassin’s Creed, Call of Duty), oppure estremamente semplici e immediati (Nintendo e simili). "C’è l’opportunità di fare qualcosa che stia a metà tra i due", continua Kellee.



"C’è un gruppo di giocatori che sono diventati grandi, vogliono vivere esperienze che non richiedano 30 ore di attenzione esclusiva, ma siano soddisfacenti e profonde".

La mente dietro a Thatgamecompany è Jenova Chen, cinese di Shanghai, classe 1981. "Prima che io nascessi, tu avevi già una console", mi dice ridacchiando quando gli dico che ho 37 anni. Jenova (o Xinghan) ha cominciato a programmare da bambino. "Mio padre lavora nell’industria del software, e quando avevo dieci anni mi costrinse a studiare programmazione. Io amavo disegnare, e gli artisti in genere non hanno un soldo, quindi mio padre mi disse: «Studia il computer, che almeno poi tuo padre ti trova un lavoro». Allora c’era l’Apple II, con le scritte verdi e tutti quei numeri. E io odio i numeri. Per fortuna c’erano già dei giochi come il platform Lode Runner, e al corso di informatica si giocava parecchio, per cui cominciai a divertirmi".

Negli Stati Uniti quest’anno ha fatto molto discutere il libro di una docente di giurisprudenza di Yale, Amy Chua, che racconta quanto funzioni bene la severa, quasi spietata educazione cinese (Battle Hymn of the Tiger Mother, Il ruggito della mamma tigre, Sperling & Kupfer). Nel caso di Jenova non c’è stato niente di troppo coercitivo, ma la concretezza del padre è stata senza dubbio lungimirante. "Io sono sempre stato avanti rispetto agli altri", spiega Jenova col suo fortissimo accento cinese. "I miei compagni al college non sapevano neanche usare un mouse, mentre io programmavo da anni. E allora mi sono iscritto a corsi diversi, come fotografia. Mi sono diplomato in informatica e arte". Nel 2003 Jenova si trasferisce negli Stati Uniti con un visto di studio per fare un master alla University of Southern California. Finisce al dipartimento di Interactive Media, dove incontrerà sia Kellee che i primi successi.

"All’idea di lavorare per i videogiochi, visto che in famiglia volevano che facessi un lavoro vero, inizialmente mi sentivo come uno che fa film porno o gestisce un casinò. Poi la scuola ci ha portati alla Game Developer Conference". Alla GDC Jenova vede 20mila persone provenienti da tutto il mondo, e capisce di avere a che fare con passioni e professioni vere. Soprattutto esamina la vetrina dei giochi degli studenti dell’Independent Games Festival, e scopre che fanno schifo. "I giochi che avevo fatto al college in Cina erano molto meglio", ricorda di aver pensato. L’università bandisce un concorso per il migliore titolo innovativo realizzato dagli studenti, con un premio di 20mila dollari. Jenova e un gruppo di compagni partecipano, e vincono. Con quei soldi realizzano Cloud (entro la fine del loro master, il gioco verrà scaricato 600mila volte).

"Con Cloud", dice senza sembrare per niente new age, "sentii la vocazione. Non mi aspettavo un successo del genere. Ricevetti mail da tutto il mondo.


Un ragazzo a Tokyo mi scrisse per dirmi che aveva pianto, mentre giocava. In molti mi chiedevano di mostrare il gioco a tutti, far vedere di cosa erano capaci i videogiochi. Avevo fatto altri giochi, e nessuno mi aveva mai scritto delle mail del genere: c’era qualcosa di diverso in Cloud che produceva quel tipo riscontro. Erano le emozioni".

I giochi di Jenova sono diversi dagli altri proprio perché partono dalla ricerca di un’emozione, e non vivono di meccanismi e soluzioni. Non si spara. Non ci sono punteggi, armi, icone, barre dell’energia o altri simboli sul monitor. I suoi giochi sono ambienti che suscitano sensazioni in chi li frequenta. In Cloud è la condizione di un bambino che sta fantasticando. Flow, il primo titolo Thatgamecompany per PS3, cerca di indurre quel senso di benessere puro, detto flusso o trance agonistica, teorizzato dallo psicologo Mihály Csíkszentmihályi. Flower porta alla stessa condizione, quella di quando si è concentrati con leggerezza e ci si dimentica di tutto, con i movimenti di un petalo in un prato minacciato dall’asfalto. E poi c’è Journey, il gioco che, grazie al ritorno della corrente, tutti stanno ritoccando sulle scrivanie qui intorno a me.

In Journey sei un personaggio senza sesso o identità, ti muovi in uno spazio desertico immenso, e intraprendi un viaggio verso una cima montuosa all’orizzonte. L’avventura si può affrontare da soli, ma un altro giocatore può comparirti accanto, senza che né tu né lui sappiate niente dell’altro, senza che possiate parlarvi o abbiate modo di interagire, se non con un “Oooh!” indistinto. Si cammina uno accanto all’altro, si fa un pezzo di strada assieme, e ci si capisce a gesti, come sconosciuti veri. Giocare a Journey (uscita prevista tra febbraio e marzo 2012) è un’esperienza da occhi lucidi, fatta più di sentimenti che di adrenalina, del tutto inedita per una console. Secondo Jenova i videogiochi di oggi rischiano di fare la fine del fumetto americano: un linguaggio che parla solo ai maschi adolescenti, a differenza del manga giapponese di cui esistono declinazioni per bambine, adulti, anziani.

" Non volevamo realizzare un gioco d’avventura", dice Jenova. "Volevamo creare emozioni nuove tra persone che giocano insieme. Quasi tutti i titoli online girano intorno all’ammazzarsi a vicenda o ammazzare qualcosa insieme, quindi la varietà emotiva è limitata. Noi volevamo che nascesse un legame vero, un senso di fiducia tra individui. La gente ha una cattiva impressione di chi trova online, e noi volevamo ribaltarla. Non si dovrebbe pensare «Chi cavolo è questo? Scommetto che non è veramente una femmina», ma «Uh, un altro essere umano! Voglio farci una passeggiata»”.

Molte delle cose che dice Jenova sono così semplici e di buon senso da sembrare banali, ma anche apparentemente molto ponderate: è il tipo di stile che hanno i fanfaroni e i visionari. In questo caso abbiamo senza alcun dubbio a che fare con la seconda categoria.

Continua a parlare di Journey: "È quello che succede se fai un’escursione all’aperto e ti imbatti in qualcuno. Di solito saluti, e se c’è qualunque problema sei pronto a dare una mano. Quando ti succede la stessa cosa in città, fai finta di niente. Anzi, se qualcuno ti saluta, ti domandi se non stia per chiederti dei soldi o derubarti. Quando sei in giro da solo in mezzo alla natura, provi un senso di insicurezza, soggezione, rispetto misto a paura: non sai quello che ti succederà, e se vedi un’altra persona, sentendoti piccolo, vuoi interagire, stare insieme a lei. È un istinto elementare. E allora, per cambiare la percezione di chi si incontra online, dovevamo fornire loro un ambiente che fosse l’equivalente della natura, dello spazio aperto. A quel punto ci siamo resi conto che stavamo parlando di avventura, ma ci siamo arrivati a ritroso. Questo è l’approccio di Thatgamecompany: partiamo dall’emozione, invece di pensare che ci servono una frusta, una pistola e un inseguimento in auto".

In questa fase, a qualche mese dall’uscita, Journey ha un problema di parabola emotiva. Le persone che l’hanno testato dall’inizio alla fine sono rimaste contrariate: ricordavano più i momenti di smarrimento prima della fine che il sollievo maestoso della conclusione. "Ora dobbiamo riequilibrarlo", dice Jenova sorridendo, "affinché il crescendo finale sia più forte della fase frustrante che lo precede. Soffrire va bene, ma lo zucchero che segue l’amarezza non è ancora abbastanza dolce. Non siamo in una fase in cui la gente voglia vivere delle tragedie nei videogiochi. Lì ci arriveremo tra una ventina d’anni".  
 
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